In caso di atti efferati l’essere umano viene definito bestia, e nel caso questi atti siano compiuti da più persone, il gruppo diventa un branco. Come se l’animale umano mutasse specie nel momento in cui manifesta atti particolarmente cruenti. Eppure un branco di bestie, ovvero di animali non-umani, segue scrupolosamente le leggi naturali, le stesse leggi che permettono la vita sul pianeta, e non commette mai violenze gratuite.
Perché allora assistiamo a questo atto denigratorio?
Il caso dell’aggressività dei cani randagi, soprattutto quando si organizzano in gruppi, è un effetto generato dal comportamento ambivalente dell’essere umano, che prima accoglie e poi respinge. Senza l’adeguato apprendistato per la sopravvivenza in assenza di un supporto umano, ovvero della quotidiana ciotola di pappa, assistiamo al disperato e violento urlo della vita.
L’animale umano è l’unico che sa essere disumano, l’unico che manifesta aggressività immotivata e l’unico che riesce a instillare una simile aggressività anche in altre specie, eppure etichettiamo i nostri esponenti più crudeli come bestie, come se volessimo allontanarli dalla specie umana per restituirli a quella non-umana.
E così il sottile condizionamento psicologico del linguaggio continua, perché se il linguaggio manifesta il nostro pensiero, è anche vero che il nostro pensiero viene influenzato dal linguaggio, soprattutto quando viene imposto.